In principio fu Rivera. Poi Baresi, Maldini e chissà quanti altri. A volte il Milan, nel suo spogliatoio, aveva solo l’imbarazzo della scelta e non uno ma tre o quattro capitani.
Ancor prima, la calma placida di Liedholm fuori e la sua classe in campo. O se vogliamo tornare alle origini, persino Herbert Kilpin si caricò la squadra sulle spalle, nel senso che la fondò, certo e determinato che il Genoa non avrebbe più dominato in quegli anni pioneristici di football giocato con i calzettoni e il basco in testa.
Nel Milan di oggi, tralasciando per un momento le questioni tecnico-tattiche, non è ancora emersa la figura di un leader. Uno di quelli che col proprio carisma e la propria esperienza si caricano la squadra sulle spalle e la portano in salvo. Un po’ come “il quarto d’ora granata”, ci vorrebbe il quarto d’ora rossonero. Anzi, meglio anche una mezz’oretta. Il trombettista del Filadelfia, nei formidabili anni Quaranta del Torino pluricampione, suonava la carica e Valentino Mazzola prima si tirava su le maniche e poi demoliva, insieme ai suoi compagni svegliati dal torpore, gli avversari. Bonucci pareva la figura giusta alla quale affidare una fascia di capitano che non può più essere assegnata per appartenenza, in un calcio che ha tirato alle ortiche il concetto di bandiera, ma per personalità o carisma.
Non c’è più un passaggio di consegne, e spesso ci si affida a capitani improvvisati o ragazzi ancora non in grado di reggere il peso delle responsabilità. Non sappiamo se sia stato un danno più che una virtù, ma il buon Leonardo, accolto come il Messia del sentimento anti-juventino, non ha sino a questo momento ottenuto nei voti in pagella. Ma non è solo una questione di fascia. Tra le mura dei sotterranei di San Siro non c’è più uno zoccolo duro capace di portare fuori dalle secche la squadra, di tramutare in energia positiva la negatività di un momento. Se il Milan di Zaccheroni ha messo in bacheca il sedicesimo scudetto nel 1999, lo deve anche a signori del calibro di Albertini, Boban, Maldini o Costacurta, che funsero da scialuppe di salvataggio dal biennio ’96-’98, in cui il Milan aveva chiuso un grande ciclo vincente e aveva conosciuto l’incubo di un decimo e un undicesimo posto, con San Siro impietoso a lanciare uova marce e girare la schiena a coloro che fino al giorno prima avevano fatto godere un po’ tutti.
Per costruire una squadra vincente ci vuole tempo, ancora di più per costruire una fortezza nello spogliatoio. Il Milan deve provare a individuare, in mancanza perdurante di uomini ambasciatori del milanismo, le due o tre teste forti che non temano le intemperie e fungano da scialuppe come lo erano i leader di un tempo. La fragilità mentale di cui andava parlando Montella è un cattivo biglietto da visita per un gruppo di calciatori certamente di qualità ma ai quali, in sede di colloquio, sarebbe dovuta essere richiesta l’attitudine a non spaventarsi dinnanzi alla burrasca. Uscirne, sarebbe la svolta del progetto Milan, manna dal cielo per i risultati, per l’entusiasmo e per il quarto posto distante nove punti. E, cosa ancor più urgente, per la carriera di Montella.