I segnali sono tanti, si sta perdendo la rotta. C’era una volta un Milan riservato, che non sgarrava mai né dal punto di vista calcistico, né da quello comunicativo. L’aplomb mostrato rivelava un’identità ben precisa che metteva i colori rossoneri un gradino sopra nel modo di porsi a molti dei top club di tutto il mondo. Tuttavia da qualche anno a questa parte si è smarrito qualcosa: quella capacità di limitare i segnali negativi all’esterno per gestirli, trattarli e risolverli all’interno, senza dare l’impressione a tifosi e non che la barca stia per affondare da un momento all’altro.
L’ansia per il baratro, per lo sconosciuto, per una delusione che al momento pare irreparabile, è ben rappresentata dalla sceneggiata di Philppe Mexes. Dell’episodio riprovevole messo in mostra all’Olimpico del francese si è dibattuto ormai a lungo, ma ciò che è importante sollevare è ciò che sta dietro ad un gesto così eclatante. I messaggi pubblici che lancia Inzaghi raffigurano uno spogliatoio attento e concentrato ma succube di una paura che disgrega, demotiva e mina gli entusiasmi. Poi le limitatezze personali fanno il resto in campo. Appena si subisce scatta il meccanismo di inferiorità che porta a risultati per forza di cose negativi.
Mexes reagisce come è la sua natura di testa calda, ma almeno è una reazione, e se non stasera al massimo domani si scoprirà l’entità della sua squalifica. Però vedere giocatori ciondolare in campo senza sapere realmente cosa fare, o senza avere un po’ di orgoglio che li spinge a muoversi per cercarsi lo spazio o la giocata “diversa”, rende insofferente l’ambiente che circonda la squadra, facendola entrare in un circolo vizioso dove a vincere non è nessuno: né tifosi, né squadra, né dirigenza. Rimettere insieme i pezzi e ricercare quella coesione e quell’entusiasmo di inizio stagione, fare quadrato attorno ad Inzaghi (dirigenza, squadra e tifosi), sopportare e crederci. Ripartiamo da qui.