Quello di domenica scorsa, probabilmente, è stato il punto più basso raggiunto dal Milan in epoca moderna. Non solo per il risultato, un 5-0 che non si subiva da più di 25 anni. Quello che ha lasciato sconcertati e inermi – ancora più che incazzati – tutti i tifosi rossoneri è stata la mancanza di reazione, la disarmante arrendevolezza di una squadra dall’elettrcardiogramma piatto, senza cuore né anima.
La cosa più preoccupante è l’essere arrivati al punto di non avere la benché minima idea di dove mettere le mani in questo miscuglio di ragazzini – alcuni viziati, alcuni proprio senza spina dorsale – e uomini che sulla carta avrebbero dovuto infondere esperienza e fosforo, ma che purtroppo hanno rivelato meno personalità di quelli menzionati prima. La conferma è arrivata proprio da mister Pioli nel post Atalanta: «Sono deluso dai miei giocatori, mancano le idee. Bisogna lavorare. Ibrahimovic aumenterebbe la determinazione e la voglia negli allenamenti». Dichiarazioni disarmanti, di chi forse ha capito di aver già perso il polso della situazione. Non ci sono cene di squadra che tengono.
Dopo l’incazzatura e la delusione iniziali, però, una domanda sorge spontanea: perché questo Milan fa peggio di quello precedente? Alla fine ha perso solo (molti potrebbero leggere sarcasticamente questo «solo») Cutrone, Abate e Zapata (oltre a Bertolacci, Mauri e Montolivo) – veterani o in ogni caso giocatori impregnati di storia e tradizione rossonere – ma allo stesso tempo ha visto arrivare uno come Theo Hernandez, Krunic, Bennacer, Leao, Duarte e Rebic. Ad eccezione del primo – che si sta dimostrando straripante – non stiamo parlando di top player, ma comunque di gente che sulla carta avrebbe potuto e dovuto elevare la qualità della rosa. Eppure il Milan un anno fa lottava per un acceso in Champions League, oggi si trova nella side b della classifica, distante 15 lunghezze da quel quarto posto divenuto ormai irraggiungibile.
Allora perché? A distanza di mezzo anno, dopo le critiche per un gioco difensivista e poco divertente, c’è da ammettere che la differenza la faceva proprio Gennaro Gattuso. Non tanto per come disponeva gli uomini in campo o per gli schemi che impartiva ai suoi, ma per la capacità di infondere una mentalità, di trasmettere i valori milanisti che lui stesso aveva dovuto apprendere, a partire dallo scappellotto ricevuto da Costacurta dopo essersi fatto per la prima volta la barba a Milanello senza sciacquare il lavandino. Gattuso in poche parole è stato capace di caricare e motivare quei ragazzini definiti poco fa «viziati e senza spina dorsale», creando un gruppo che per lo meno aveva – appunto – un’anima.
Lo dimostrano i risultati e i punti. Lo dimostra il fatto che a differenza di quest’anno, il Milan con Rino ha battuto la Roma e ci ha pareggiato all’Olimpico, così come con la Lazio; viceversa con l’Atalanta, sconfitta a Bergamo con un’esaltante rimonta. Ha lottato con Juventus, Napoli e Inter, nonostante le sconfitte. Assodata la mancanza di una società forte e competente – da Gazidis a Maldini, passando per Scaroni e Boban – Gattuso ha avuto il coraggio e l’intelligenza di concentrare su di sé tutte le attenzioni, nascondendo le nefandezze di una dirigenza incapace di gestire il caso-Higuain e il post-derby di ritorno, che di fatto ha segnato irrimediabilmente la rincorsa Champions.
Sarà Ibrahimovic la soluzione per ritrovare milanismo e fervore agonistico ormai dimenticati dal Diavolo? Difficile prevederlo. Quello che sembra però indispensabile è ripartire da idee chiare, da uomini di carattere e ambiziosi. Ma non solo in campo: un fondo di investimento che ha come scopo esclusivo quello di rivalutare e vendere il club è il primo ingranaggio di una macchina che non può funzionare.