Arnault e il principio dell’autonoma sostenibilità

Se per i milanisti il 2019 andrà in archivio come un anno ancora avaro di ogni minima soddisfazione, per Bernard Arnault sarà colorato di verde. Il magnate del gruppo LVMH ha definito nei mesi scorsi l’acquisizione di un altro grande marchio del lusso: Tiffany. E ora in molti lo accostano a nuovi colori, quelli rossoneri. Lo fanno i tifosi, sperando che qualcuno voglia tornare ad investire seriamente nel Milan. È c’è da scommettere che lo faccia anche Paul Singer (Elliott), visto che finora la società rilevata da Yonghong Li per insolvenza sta solo portando accumuli di perdite e una conseguente scarsa propensione all’investimento.

Chi scrive è tra i più scettici di fronte alla possibilità che Arnault si butti nel mondo del calcio per investire, tanto per cominciare, un miliardo di euro. Lo sono per tanti motivi, in generale. Lo sono ancora di più in particolare sul Milan, a cominciare dalla conoscenza dell’impero LVMH, dove occupano posizioni rilevanti anche i figli del “vecchio” Bernard, i giovani Antoine e Alexandre. La loro impostazione aziendale ricalca molto alcuni tratti tipici transalpini, compreso un certo senso di superiorità nei confronti degli italiani. Al di là di questa considerazione, che può sembrare banale, il comune denominatore delle aziende sotto la galassia LVMH è l’autonoma sostenibilità. Esiste un unico proprietario, Arnault e figli, ma non ci sono “vasi comunicanti”: se Dior fatica, non c’è Louis Vuitton in soccorso, se Kenzo perde fatturato, non arrivano gli utili di Givenchy a compensare, tanto per citare alcuni dei marchi che fanno capo alla grande famiglia francese. Tutto il contrario rispetto a quel calcio italiano che faticosamente tenta ancora di ripulire l’immagine patronale dove, in caso di perdite, “paga Pantalone”.

Non basta essere l’uomo più ricco di Francia, uno dei più potenti del mondo, per pensare che il portafogli si possa aprire in maniera disinvolta. Arnault non sarà mai Berlusconi o Moratti, ma nemmeno un Agnelli che alla Juve è legato più col cuore che col cervello economico-finanziario. Se LVMH stesse valutando davvero l’acquisto del Milan, lo starà facendo con un piano di investimento di partenza importante, ma con il “dogma” che non possano sussistere continue iniezioni di capitali, per quanto disponibili. Insomma, da quelle parti si investe sul sicuro e per un ritorno nel breve termine, per non dire immediato.

E’ la storia a parlare per loro. Negli ultimi anni LVMH ha imbarcato aziende per nulla in sofferenza. Anzi. Un esempio su tutti: nel 2016 Arnault ha acquisito l’80 per cento del marchio tedesco Rimowa per 680 milioni di euro, venduto nell’apice della sua crescita e della sua notorietà, con una rete di decine di negozi aperti in giro per il mondo. In tre anni hanno rafforzato il posizionamento sul mercato, lanciando nuovi prodotti, aprendo negozi di lusso ovunque e aumentando sensibilmente il valore del brand con una politica di rialzo dei prezzi. Lo stesso “sistema” sarà applicato nella recente acquisizione di Tiffany, ma anche sul mercato dei vini (Krug e Moet) e degli orologi (Hublot e Tag Heur). Si punta su cavalli vincenti, abituati già a correre, li si mantiene in salute, si introducono nuovi paradigmi per farli andare a velocità ancora più sostenute. E ogni tre anni i manager vengono spostati “intra-gruppo” per un continuo ricambio e necessarie ventate di innovazione. Si può dire che il Milan rispecchi i requisiti del mondo LVMH?

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