Com’era ampiamente prevedibile, stanno volando stracci tra la nuova proprietà del Milan e l’ex amministratore delegato, Marco Fassone. Da una parte c’è stata una durissima lettera di licenziamento da parte di Paolo Scaroni. Dall’altra c’è ancora sul tavolo una richiesta di buonuscita vicina, secondo indiscrezioni, ai 10 milioni di euro. Roba da top-player, insomma. Al di là di ovvie considerazioni che si potrebbero spendere su chi ha prima sostenuto e “coccolato” l’ex manager e ora si guarda bene anche solo dal nominarlo, vale la pena ricordare i motivi che hanno scatenato una così roboante guerra.
Abbiamo registrato proprio pochi giorni fa i numeri del passivo ereditato da Elliott: oltre 120 milioni di euro di buco che la proprietà di Yonghong Li non ha ripianato, ma che proprio la gestione fassoniana non ha arginato. Il primo elemento di contestazione, dunque, è quello più “banale” che si può muovere ad un amministratore delegato di una società: non aver messo in pratica provvedimenti che potessero contenere la perdita generata in primo luogo da acquisti faraonici, ritocchi degli ingaggi, commissioni agli agenti.
L’elemento, però, che ha fatto ancor di più scalpore riguarda il rinnovo quinquennale della carica di direttore generale che Elliott contesta a Fassone di aver arbitrariamente deliberato da solo. In pratica, l’ex manager avrebbe tentato di assicurarsi posto e stipendio senza passare dal consiglio d’amministrazione. A parziale attenuante va detto che la coppia Fassone-Mirabelli è apparsa fin da subito come “abbandonata” e “scollegata” con una proprietà che si è rivelata inconsistente oltre che invisibile. Ma l’ABC della gestione aziendale non ha un alfabeto italiano e uno cinese. Risponde a logiche universali.
This post was last modified on 23 Ottobre 2018 - 12:39