Pare che a Milanello ogni tanto il destino si diverta a fare brutti scherzi e soffochi classe e qualità, caratteristiche da sempre richieste da quelle parti se si vuole indossare la maglia rossonera.
Nel 1995, al termine di un calvario di due anni e numerosi interventi, Marco Van Basten appende anzitempo le scarpe al chiodo. Impossibile rimediarla quella caviglia: un tifoso, tramite una lettera indirizzata al club, pensa persino di donare la sua cartilagine pur di godersi ancora qualche anno dell’olandese.
Poi, cinque anni dopo, il copione più o meno si ripete. Nell’estate del 2000 la tifoseria rossonera è apatica. Dopo lo scudetto zaccheroniano, il Milan si è un po’ sgonfiato: figuraccia in Europa (fuori ai gironi contro il Galatasaray) e, magra consolazione, il terzo posto in campionato. Servono forze fresche e nuovi investimenti, la curva Sud lo chiede a gran voce a suon di striscioni, e in luglio passa pure all’ironico auto-sfottò: i gruppi organizzati inscenano una colletta davanti alla sede in via Turati, con tanto di cassettina dove insaccare il denaro. Berlusconi riceve una delegazione ad Arcore e gli sforzi sono quasi subito premiati: dal Real Madrid, campione d’Europa in carica, arriva Fernando Redondo, l’eleganza in persona, dentro e fuori dal campo. Costo? 35 miliardi, somma discreta per l’epoca.
Sì, però piedi vellutati, grande visione di gioco e quel pedigree internazionale di cui il Milan si deve alimentare di continuo. L’ideale per rimpolpare lo sfibrato centrocampo rossonero. Poi accade qualcosa. L’argentino, che prima di vincere tutto al Real giocava nel Tenerife e brillava nella nazionale argentina (Copa America vinta nel 1993), incappa in un infortunio al ginocchio. Uno stop che pare di pochi mesi, diventa infinito. Esce lo spessore morale oltre che calcistico: Redondo chiede alla società di non percepire lo stipendio. Intanto il Milan caccia Zaccheroni, prende Terim e poi cambia di nuovo per Ancelotti. Redondo, sempre ai margini, spera e si illude a fasi alterne che possa rientrare. Il mese di dicembre del 2002 è il momento giusto: il giorno 3 gioca in Coppa Italia con l’Ancona (1-1) e quattro giorni dopo scende in campo contro la Roma. Due anni e mezzo dopo essere arrivato in rossonero. Contro i giallorossi, segna Inzaghi e lui sfodera uno dei suoi numeri a metà campo. E’ troppo tardi, però: nel Milan che sta per avviarsi alla gloria europea e successivamente al diciottesimo scudetto, lui non può che fare la parte del comprimario. In quattro stagioni sotto contratto con il Milan, mette insieme la miseria di sedici presenze.
Al termine di quella stagione, 2003-04, si ritira lasciando un’infinità di rimpianti. Non che il Milan non avesse nel frattempo rimediato: in mezzo al campo troneggia Pirlo, autentico trascinatore in quel ciclo ancelottiano pieno di grandi giocatori. E’ il Milan dei brasiliani: Kakà, Serginho, Cafu, Rivaldo, samba e churrasco. Eppure, il Re incontrastato sarebbe potuto essere un argentino: Fernando Redondo, il più grande giocatore che il pubblico rossonero, dal palato fine, non ha praticamente mai visto.