E figuriamoci se Arrigo Sacchi non ci aveva visto lungo. Il giovane Demetrio, da Besana in Brianza, classe 1971, gioca nella primavera del Milan. Tirava calci a un pallone in un oratorio, come accadeva ancora in quegli anni e i rossoneri se lo presero dalla squadra locale. Fin quando un giorno, stagione di grazia 1988-89, Arrigo non lo fa esordire in serie A: è un buio e nebbioso pomeriggio di metà gennaio ed è il suo primo quarto d’ora nel massimo campionato: Albertini scende in campo a San Siro rilevando Angelo Colombo, giusto un minuto prima del quarto gol, una autorete di Maccoppi che fissa il punteggio sul 4-0 per i rossoneri. Tutt’altro che delicata quella sfida: l’anno nuovo si era aperto con la sconfitta di Cesena e la posizione di Sacchi addirittura in bilico dopo lo scudetto della stagione precedente. Finirà sul tetto del mondo.
Nella stagione successiva, Albertini si deve accontentare di altri quindici minuti, nella passerella finale amara contro il Bari, battuto 4-0 sul neutro di Bergamo quando ormai lo scudetto era volato a Napoli, tra veleni e discordie. Un anno in prestito a Padova, 28 presenze e 5 reti, ed ecco che ora, sì, il nostro è pronto per prenderlo in mano, quel centrocampo. Partito da tempo Colombo e con Ancelotti ormai al tramonto della carriera, il reparto centrale del Milan ha bisogno di un restyling. La stagione 1991-92 è quella che riporta il Milan ai fasti di poco tempo prima, dopo la figuraccia di Marsiglia e l’esclusione dalle Coppe Europee: è un cammino trionfale, con 22 vittorie e 12 pareggi il Milan di Capello, al primo anno sulla panchina rossonera, stravince il campionato senza perdere nemmeno una partita. Berlusconi, nel vedere all’opera quel ragazzino di 20 anni ormai consacrato, scomoda persino illustri paragoni con Gianni Rivera.
Albertini prenderà in mano le redini del centrocampo in quei favolosi anni Novanta, cucendosi addosso il soprannome di “metronomo” e tirando bombe sui calci di punizione dal limite, come ben sanno in particolare Preud’Homme e Dutruel, portieri di Monaco e Barcellona, battuti (nel 1994 e nel 2000) dai suoi micidiali calci di destro. Dinamico, carismatico, indemoniato, con una intelligenza e una visione di gioco che soltanto Pirlo qualche anno dopo sarà in grado di ereditare. I trionfi con Capello, dagli scudetti da protagonista alla finale di Coppa dei Campioni contro il Barcellona stravinta ad Atene; ma anche le delusioni, come quella Coppa Intercontinentale sfuggitagli da sotto il naso a Tokyo, contro il Velez: i “senatori” cercano di rincuorarlo, e lui piange. Il Milan nel cuore e nella pelle, e in Nazionale quel Mondiale evaporato a 11 metri dal successo, in quell’anno denso di cose, a Pasadena, seppur lui segnò uno dei due rigori dell’Italia contro il Brasile. “La camminata dal centrocampo sino al dischetto del rigore è il momento topico: è da provare”, disse anni dopo.
Già, Pirlo: nel 2002, proprio quell’Ancelotti che lui aveva sostituito in campo, opta per far posto al bresciano nel suo ruolo. Demetrio non la prende benissimo e se ne va in Spagna all’Atletico Madrid, dove segnerà pure ai più grandi cugini del Real proprio con una delle sue punizioni. In rossonero colleziona un totale di 406 partite ufficiali e 28 gol, e gioca gli ultimi 90 minuti a Torino, il 14 aprile del 2002, quando un Milan orgoglioso ma inferiore alla Juventus, soccombe per 1-0. Avrebbe meritato anche la scrivania, Demetrio, quando invece perse il duello con Tavecchio per la presidenza della FIGC. E’ proprio vero che questo non è un paese per giovani. Perché Demetrio Albertini da Besana in Brianza, oltre che rimanere nel cuore di tutti i milanisti, sarà sempre quel giovanotto della Primavera che è divenuto uno degli straordinari immortali del Milan con le sole armi dell’umiltà, del sacrificio e dell’impegno.