“Cudicini, Anquilletti Schnellinger, Rosato, Malatrasi…”, iniziava così la filastrocca che tutti coloro che erano milanisti canticchiavano negli anni Sessanta. Cosa aveva da invidiare d’altronde a “Sarti, Burgnich, Facchetti…”? Erano anni di grande Milano, erano le stagioni di Milan e Inter, ai vertici nazionali e internazionali. Per la prima volta la seriosa e stakanovista città della Madonnina, otteneva la laurea europea nel football. In quella filastrocca, quella del Milan di Rocco che batte l’Ajax a Madrid nel 1969 per intenderci, quel Rosato lì in mezzo si chiama Roberto, era tenero e dolce nel suo carisma e nel suo aspetto, e un grande condottiero in campo con la maglia rossonera.
È il 18 agosto del 1943, e in Piemonte è un gran giorno: c’è un’altra mamma, poco lontano da Chieri, dove nasce Rosato, che ad Alessandria dà alla luce un bambino che chiama Gianni. Sin qui nulla di eclatante, se il cognome non fosse Rivera e se Rivera e Rosato non legassero i loro destini agli stessi colori. Cresciuto calcisticamente nel Torino, Rosato era un difensore centrale vecchio stampo, arcigno e determinato, e il suo volto angelico (appunto, “Faccia d’angelo”) contrastava con la grande determinazione che metteva in campo. Dopo sei anni al Torino, Nereo Rocco lo vuole al Milan: lo aveva allenato in granata e non aveva dubbi fosse l’uomo giusto per la linea difensiva.
Appena giunto a Milanello, vince subito la Coppa Italia nel 1967, dando il via a un triennio di scorpacciate: nel 1968 arrivano scudetto e Coppa delle Coppe, poi nel 1969 quella serata magica in Spagna contro i lanceri, battuti 4-1. Poi arriva il 1970: l’Apollo 13 resta in avaria nello spazio e riesce a rientrare fortunosamente sulla Terra, il Cagliari di Riva vince lo scudetto, Nixon è presidente degli Stati Uniti ed esce l’ultimo album dei Beatles, “Let it be”. Ma soprattutto, in giugno, ci sono i Mondiali in Messico. “Eravamo più forti di quelli che hanno vinto in Spagna nel 1982” avrà modo di dire Rosato, che nelle gerarchie partiva dietro allo stopper del Cagliari Niccolai, ma per via di un suo infortunio si prese la maglia da titolare. Era ovviamente uno degli undici in campo anche il 17 di quel mese di giugno, quando a Città del Messico si giocò “el partido del siglo”, la partita del secolo tra Italia e Germania. Che storia anche quella con gli azzurri: due anni prima, all’Olimpico, era nella squadra che vinse l’unico campionato Europeo e che da allora è sfuggito molte volte da sotto al naso dell’Italia. Lascia il Milan nel 1973 dopo essersi intascato un altro trofeo, la Coppa Italia conquistata ai calci di rigore contro la Juventus. Va al Genoa, gioca altri quattro anni in rossoblu scendendo anche in serie B, e poi chiude la carriera nell’Aosta. Poi abbandona il calcio e fa tutt’altro mestiere diventando assicuratore, forse con qualche rimpianto di essere uscito dal giro. “Vedo poche partite allo stadio e pago sempre i biglietti per la mia famiglia. Non ho mai chiesto nulla a nessuno” disse in un’ intervista al ‘Guerin Sportivo’.
Se n’è andato nel 2010, e di lui scegliamo ancora queste sue parole per meglio rendergli onore: “Mi sono goduto poco le vittorie, impegnato com’ero a combattere col pensiero di non essere mai all’altezza. Quando invece mi vedo nelle migliori formazioni del Milan di tutti i tempi, mi sento un piccolo divo”. Umiltà d’altri tempi. Non ce ne sono più di persone come Roberto Rosato da Chieri, “gemello” di Rivera che nella “hall of fame” rossonera ci è entrato di diritto, non certo per farlo sentire un piccolo divo, ma per certificare quanto fosse un grande uomo.