“In principio era Baggio, il calcio era presso Baggio e Baggio era il calcio“. Solo una citazione biblica poteva rendere al meglio l’idea della grandezza di colui che, per anni, ha incarnato l’essenza dello sport italico per antonomasia.
Roberto Baggio, fuoriclasse assoluto e indomabile: amato dal popolo e odiato dalla gran parte dei suoi allenatori, che non sono mai riusciti ad imbrigliarlo tra schemi e regole di spogliatoio. Calciatore e pensatore libero, ha preso spesso decisioni discusse e impopolari, ma sempre e solo sue.
Fortemente voluto da Fabio Capello, il “divin codino”, nel 1995, passa dalla Juve al Milan per 18 miliardi di lire. In rossonero vince subito lo scudetto (il secondo di fila per lui), segnando anche contro la Fiorentina nella vittoria che regala il titolo ai milanesi. Nella stagione successiva, sulla panchina rossonera si siede Óscar Tabárez, che subito dichiara di voler puntare in attacco su di lui e George Weah. Tuttavia, la crisi di risultati della squadra comporta l’esonero dell’allenatore uruguaiano e il ritorno a Milanello dell’ex c.t. Arrigo Sacchi, con cui persistono vecchie ruggini risalenti al Mondiale americano. Baggio finisce, dunque, spesso in panchina e, al termine della stagione, decide di accettare la corte del Bologna, con cui, nell’anno del Mondiale, realizza 22 reti.
Dopo la parentesi rossoblu e due stagioni non esaltanti nell’Inter, l’ex rossonero si trasferisce a Brescia, dal suo mentore Mazzone. Con le rondinelle vive una seconda giovinezza, sino a quando, nel 2004, non decide di appendere gli scaprini al chiodo.
Il 4 agosto 2010 viene ufficializzata la sua nomina a Presidente del Settore tecnico della Federazione, ruolo che ricopre sino al 2013, in cui decide di lasciarlo non senza qualcue strascico polemico.