Il Milan è stato forse il punto più alto della sua carriera. Oliver Bierhoff, un nome che a pensarci oggi viene nostalgia, ha avuto come Regno la provincia: Ascoli, Udine e anche il piccolo quartiere di Chievo, Verona, che si era affidato alla sua esperienza nei suoi primi mesi di serie A. Nato a Karlsrhue, stesso luogo di origine di Mehmet Scholl e Oliver Kahn che fecero grandi il Bayern degli anni Novanta.
Anche lui in quel decennio non se la cavava male e dopo gli esordi nel Bayer Uerdingen timbra 23 reti a Salisburgo, prima che l’Inter (sì, proprio loro!) lo prenda e lo giri in prestito all’Ascoli. In maglia bianconera, dopo i difficili esordi, vince la classifica cannonieri al termine della stagione 1992-93 e vi arriva a un soffio anche l’anno seguente. Il presidente è ancora Costantino Rozzi, la squadra però non riesce a evitare una nuova retrocessione questa volta in serie C.
É in Friuli che la carriera di Bierhoff svolta: al primo campionato con l’Udinese segna 18 reti e l’anno seguente fa ancora meglio: i suoi 27 gol (nessuno aveva mai segnato così tanto in A dal 1960-61) trascinano i bianconeri al terzo posto dietro le duellanti per lo scudetto Juventus e Inter: la squadra friulana si qualifica così per la Uefa, poiché la Champions League era appannaggio solo delle prime due.
Forte di testa, debole di piede, dicevano. Ed è certamente la realtà. Ma contro l’Ajax nel novembre del 1997, nei sedicesimi di quella Coppa Uefa, Bierhoff calcia una sventola di destro sotto l’incrocio degna del miglior fuoriclasse, che non basta purtroppo ai friulani per passare il turno.
Nell’estate del 1998 a Milano, sponda rossonera, c’è bisogno di rivoltare il calzino: dopo due annate fallimentari arriva sulla panchina proprio Alberto Zaccheroni, che da Udine si porta dietro i suoi scudieri. Insieme a Thomas Helveg, Bierhoff si piazza nel 3-4-3 di marca zaccheroniana e il Milan, con un po’ di fortuna, vola verso il sedicesimo tricolore. Oliver impazza: segna 20 reti, 14 di testa, tra cui il 2-0 decisivo a Perugia prima dei brividi finali nel giorno dell’aritmetica certezza del titolo, e capitalizza al meglio il suo fornitore ufficiale di cross, un certo Guglielminpietro dal nome quasi impronunciabile pescato in Argentina e che sa come far pervenire al tedesco il pallone con il contagiri. Post scriptum: il 9 maggio ‘99 a Torino, contro la Juventus, si divora almeno tre palle gol a porta mezza sguarnita, che non impedirono comunque ai rossoneri di piegare gli avversari.
Resta altre due stagioni in rossonero, avare di successi personali e di squadra, prima di trasferirsi in Francia al Monaco e poi al Chievo, come detto, dove castiga addirittura i suoi ex compagni del Milan nella vittoria per 3-2 dell’ottobre 2002 al “Bentegodi”.
Niente panchina per lui al termine della carriera: diventa, e lo è ancora attualmente, dirigente della federazione tedesca e capo delegazione della nazionale. Quella Germania con cui nel 1996 vinse l’Europeo grazie al 2-1 di Wembley contro la Repubblica Ceca. Golden gol decisivo? Di Bierhoff, ovviamente. Ma questa volta con i piedi.