In pochi si sarebbero sbilanciati così. “Presidente, se me lo compra vinciamo lo scudetto”. Arrigo Sacchi cercava la ciliegina sulla torta di un Milan che stava costruendo, dai resti di una catapecchia, un hotel di lusso. Il nome individuato per imparare a memoria lo spartito che il romagnolo doveva indottrinare ai giocatori, era quello di Carlo Ancelotti. Così il mister di Fusignano domandò a Paperone Berlusconi se potesse fare un ultimo sforzo, dopo l’arrivo di Gullit, Van Basten e contorni. Altri cinque miliardi e via. Ancelotti era l’uomo giusto: dapprima si era fatto robuste ossa al Parma, poi con la Roma aveva raccolto fama, gloria, uno scudetto e il plebiscito della gente. Emiliano di Reggiolo, aveva esordito a 16 anni nei crociati, portandoli di suo pugno in serie B segnando una doppietta nello spareggio col Vicenza al termine della stagione 1978-79. Proprio mentre un po’ più su, a San Siro, erano giorni di festa per il decimo scudetto del Milan targato Liedholm. Corsi e ricorsi: l’allenatore di quel Parma era un certo Cesare Maldini, bandiera del Milan, e alla Roma sarebbe stato proprio lo svedese a condurlo dalla panchina. Il padre di Paolo ne aveva intuito le doti tecniche e lo aveva sistemato alle spalle delle punte, nella capitale invece agirà da mediano, ruolo che ricoprirà fino al termine della sua carriera.
A dire il vero la Roma se n’era disfatta a cuor leggero: il ginocchio scricchiolava, il fisico sembrava non reggere. Sacchi fu categorico: “A me interessa che abbia il 100% di abilità nel cervello”. Eppure, pare non ingranare il Milan sacchiano. Poi, dopo il 4-1 al Napoli nel gennaio del 1988, le cose cambiano. Inizia una lunga rincorsa che porterà i rossoneri a superare i partenopei e a vincere il titolo. Ancelotti segna al “Comunale” contro il Torino e una rete nella cinquina che il Milan rifila al Como poco dopo quel Milan-Napoli. Cosa abbia rappresentato Ancelotti per il Milan, lo spiega un fatto ben preciso: nell’aprile del 1989, con il Milan lanciatissimo verso la Coppa dei Campioni di Barcellona, Evani si rompe in allenamento prima della semifinale di ritorno con il Real. Spiega ancora l’Arrigo: “Si poneva il dubbio su chi dovesse sostituire Evani, un giocatore importantissimo per noi. Chiesi ai giocatori, ma mi diedero delle risposte che non mi convinsero. Così decisi di premiare la persona: mi domandai chi fosse il giocatore più disciplinato e disponibile che avevo, e pensai ad Ancelotti. Anche se non aveva neppure una delle caratteristiche adatte a sostituire Evani”. Andate a vedere chi segnò il gol del vantaggio quella umida e inebriante sera contro gli spagnoli…
Nel 1992, il 17 maggio, Ancelotti è divenuto quasi un comprimario. Con Capello in panchina, è Albertini a prendersi lo scettro che fu di Carletto al centro del campo, a dire il vero con giusta ragione. Eppure non poteva finire così: quella domenica, con il Milan scudettato da sette giorni, la passerella finale con il Verona segna la prima doppietta in carriera all’ultima partita della sua vita sportiva. Quattro a zero ai gialloblu e l’addio al calcio giocato. Due giorni dopo, sempre a San Siro, la nazionale brasiliana è invitata per una curiosa amichevole che celebra Carletto, portato in trionfo dai compagni. Inizia un nuovo percorso, quello di allenatore, come molti ex giocatori di quella squadra da sogno. Nel 1994 parte per gli Stati Uniti e vive fianco a fianco di Sacchi il Mondiale americano che sappiamo tutto come finì. Il suo cammino da “solista” parte da casa, da Reggio Emilia. Anche qui si fa dura, ma il nostro tiene duro e porta gli emiliani al quarto posto che vuol dire serie A.
Carlo Ancelotti ha portato nel calcio la cultura di campagna alla quale è stato sempre abituato. Pazienza, cura e dedizione. Le doti che servono a chi lavora la terra per aspettare i suoi frutti. Ha avuto pazienza Carletto: quando al Parma, che lo chiama nel 1996, lo stavano per cacciare dopo un avvio di campionato negativo e vinse proprio a San Siro con un gol di Stanic contro il suo maestro Sacchi; alla Juventus, dove 144 punti non erano bastati per vincere; al Milan, rilevando Terim in una stagione tribolata, rincorrendo e raggiungendo dapprima il quarto posto e poi trovando la gloria a Manchester, in una sera di fine maggio del 2003, quando rimosse per sempre l’etichetta di “perdente” dalla sua pelle.
Più che un allenatore, un padre, si è sempre detto, ed è proprio così. Ancelotti ha saputo ricreare nello spogliatoio, pur con le dovute proporzioni, un’atmosfera che solo Rocco era stato capace di costruire. Pane e mortadella piuttosto che caviale e champagne, carota più del bastone, rapporti personali ancor prima che dettami tattici. Da quella sera inglese dove la Juventus è superata ai calci di rigore, non si ferma più: scudetto, un’altra Coppa dei Campioni, Supercoppe e anche la Coppa Italia, un trofeo che mancava nella bacheca berlusconiana. Ancelotti propone calcio in un momento storicamente difficile per il movimento italiano dopo la discussa eliminazione dal Mondiale del 2002: con Nesta, Seedorf, Pirlo centromediano e un attacco implacabile, costruisce un nuovo ciclo che ha avuto tutto per ricalcare il cammino sacchiano. Qualche uscita a vuoto, certo: Istanbul, La Coruna, e ci sarebbe stato forse un altro titolo.
Il bilancio con i rossoneri è tuttavia assolutamente attivo ed è in quel momento che il nostro inizia la campagna d’Europa: Chelsea, Paris Saint-Germain, Real Madrid, Bayern, rimpinguati di titoli che Carletto portava in un sacco come doni di Natale. Margareth Thathcer, arcinota primo ministro inglese degli anni Ottanta, si presentò citando San Francesco: “Dove c’è discordia, porteremo armonia. Dove c’è errore, porteremo verità. Dove c’è dubbio, porteremo la fede. E dove c’è disperazione, porteremo speranza”. Alla faccia del perdente: dove c’è sconfitta, porteremo trofei. Firmato Carlo Ancelotti.