Con quel naso avrebbe potuto essere un’ottima comparsa teatrale: hanno passato una vita a cercargli l’elastichino, senza trovarlo. Mauro Tassotti, romano, si è dovuto adattare a Milano. E che Milano: quella da bere, quella degli anni Ottanta. Per la verità non è stato così difficile. Il difensore un tempo arcigno, rozzo e spigoloso, era già temprato per un destino da vincente. Il 6 gennaio 1980 si gioca una partita che lui sa non essere ancora il suo spartiacque: Milan e Lazio si affrontano a San Siro, i rossoneri vincono 2-1, ma per colpa di qualche bricconcello (Albertosi & company) il match finirà nel registro delle partite sospette. E’ il via al calcioscommesse, che al termine di quel campionato spedisce in B proprio le due compagini. Da tabellino, Tassotti quella partita la gioca novanta minuti. Indosso ha la maglia che lascerà a fine stagione, di fronte il suo futuro, un eldorado di felicità.
Longilineo, con quella zazzera riccia in testa che lo fa somigliare a metà tra Battisti e Cocciante, approda dunque a Milano, si becca quella serie B d’ufficio e poi anche quella decisa dal campo nel 1982: il nostro non demorde e quando nel 1984 Nils Liedholm torna sulla panchina rossonera, la musica cambia. Lo svedese inizia a plasmare la grande impalcatura del fortunato Milan degli anni a venire: Tassotti abbandona progressivamente rudezza e spigolosità, imparando a studiare la tattica del fuorigioco, abbellendo il controllo palla e acquisendo tecnica e sicurezza. Lo fa insieme ai signori Maldini Paolo, Baresi Franco, Galli Filippo e in seconda battuta, Costacurta Alessandro. I cinque evangelisti, e non ce ne vogliano le sacre scritture.
La crisalide diviene farfalla con Arrigo Sacchi: in quegli anni, in Italia, i centrocampisti non sono abituati a voltarsi a destra e trovare un terzino alla loro altezza. E invece, oplà, ecco Mauro, su quella fascia dove al suo passaggio cresceranno solo fiori. Arrivano lo scudetto e la Coppa dei Campioni e da uno di quegli infiniti traversoni, benzina per i maestosi attaccanti rossoneri del tempo, si getta Van Basten a Barcellona con la Steaua per il momentaneo due a zero nella notte più bella della recente storia milanista. Carlo Pellegatti gli trova un soprannome azzeccato, che in realtà è un nome illustre del panorama calcistico mondiale: “Djalma Santos”, come il terzino brasiliano simbolo della nazionale e del Palmeiras per un decennio, straordinario interprete del ruolo.
Nel 1992 arriva anche l’esordio in nazionale a ben 32 anni e due anni più tardi Arrigo Sacchi si porta il fido scudiero anche dall’altra parte dell’oceano, nella fornace statunitense: quaranta gradi, partite a mezzogiorno, umidità al 100%. Nei quarti di finale con la Spagna, ecco che fa una comparsata il fratellino cattivo di Mauro, quello rozzo e spigoloso: gomitata a Luis Enrique, cartellino rosso e Mondiale finito. Un paio di mesi prima, ad Atene, l’Olimpo lo aveva celebrato: senza Baresi e Costacurta squalificati, è lui a tenere la fascia al braccio e ad alzare la quinta Coppa dei Campioni del Milan, arrivata dopo una passeggiata di salute contro il Barcellona di Crujiff, demolito 4-0 contro ogni pronostico.
Nel 1996 pensa di lasciare il Milan, i suoi compagni lo portano a spalla in giro per il campo dopo il 7-1 alla Cremonese che chiude un’altra stagione trionfale: è l’ultimo scudetto di Capello, il quindicesimo dei rossoneri e il quinto personale per “Djalma Santos”. Poi la sud gli fa un grande bandierone raffigurante la sua maglia, lui si commuove e resta un altro anno: lascerà il calcio giocato insieme a Baresi, nel 1997, dopo diciassette anni di Milan.
E a questo punto della nostra storia, si volta pagina: Tasso si sposta in panchina e vince il “Viareggio” nel 1999 con la primavera. Poi, a dispetto delle tante medaglie d’oro e dei primi posti in campo, in panchina diverrà l’eterno secondo. Abbraccia l’amico ed ex compagno di squadra Ancelotti in ogni successo del Milan di Kakà, Nesta e Shevchenko, consiglia Allegri, fa da chioccia con poco successo a Inzaghi e Seedorf, sempre come vice-allenatore. A luglio del 2016 il tempo non può più aspettare: è l’ora dei saluti dopo trentasei anni passati dentro le stesse mura. “Mi è venuto il magone”, dirà. Anche a molti di coloro che l’hanno visto giocare con quel naso aerodinamico e le sue travolgenti sgroppate.
Adesso Tassotti è sulla panchina dell’Ucraina, allenata da Andriy Shevchenko. Già, come secondo, ovviamente. Ma come cantava San Siro, “Tasso hai tutto un altro passo”. É ancora così.