Da Doha a Gattuso: altro che “cose formali”, ora tutti sotto esame

Undici mesi e quattro giorni. La parabola di Vincenzo Montella si può sintetizzare in questo arco temporale che va dalla vittoria della Supercoppa a Doha all’esonero di stamattina dopo il deludente pareggio casalingo contro il Torino. Eppure l’era del tecnico di Pomigliano d’Arco non andrà in archivio come quelle dei suoi predecessori. Già, perché almeno lui qualcosa di buono l’ha combinato, pur tra mille discutibili scelte, ma con la grande attenuante di essersi imbarcato sul traghetto che ha portato il Milan dalla gestione Berlusconi-Galliani a quella in salsa cinese che risponde comunque ai nomi italianissimi dell’accoppiata Fassone-Mirabelli.

La Supercoppa contro la Juventus era inaspettata e, per certi versi, anche la qualificazione all’Europa League, ottenuta (va detto) anche grazie al decisivo innesto di Gerard Deulofeu lo scorso gennaio, ultimo “colpo” firmato da Adriano Galliani. Poi la roboante campagna acquisti estiva non poteva che alzare l’asticella e, di conseguenza, il peso di una enorme aspettativa sulle spalle di Montella. Lui ha provato, con una elevata dose di testardaggine. Non era e non è semplice plasmare un gruppo di belle “figurine” dal potenziale sicuramente elevato, ma con un’intesa da costruire giorno dopo giorno più a Milanello che nei novanta minuti in campo, in Italia ed Europa. Forse la responsabilità più grande dell’allenatore campano è proprio l’aver perso per strada un gruppo che fin dall’inizio doveva “fare gruppo”. Al di là del gioco di parole, c’è qualcosa che si è ingrippato dalle parti di Solbiate Arno, prima, e a Casa Milan, dopo.

Proprio parlando di Casa Milan e, quindi, del management, la curva della preoccupazione del popolo rossonero non può che essere in fase ascendente. Non tanto oggi per le note dinamiche della restituzione del prestito a Elliott, quanto perché un esonero è pur sempre una sconfitta. Di tutti. Nessuno escluso. E ripartire da Rino Gattuso, con tutto il grandissimo rispetto per l’uomo e per il professionista, non è il segno di un progetto nel senso stretto della parola. Se in mezzo ci mettiamo la parata di Kakà e i balbettamenti sulla necessità di tornare o meno in Champions (che resta un miraggio), la sensazione è di essere davanti ad un pizzico di improvvisazione con accenti anche un po’ “berlusconiani”, soprattutto se ripensiamo all’operazione nostalgia con Ricky in campo nell’intervallo del match contro l’Austria Vienna.

Cacciare l’allenatore è il primo step che una società compie per raddrizzare la barca. Ma i buoni dirigenti, che tanto ci hanno parlato in questi mesi di “cose formali”, dovrebbero formalmente indirizzare una società su un programma a medio-lungo termine che francamente, oggi, non si intravede proprio. Anche qui potremmo spendere tante attenuanti: dall’estrema delicatezza del compito di Marco Fassone all’oggettivo salto esperienziale compiuto da Massimiliano Mirabelli in estate. Di sicuro, con una buona dose di amarezza, questo Milan merita tanta qualità. In ogni singolo pertugio della sua organizzazione. Ma proprio tanta.

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