Terza ed ultima parte dell’intervista rilasciata da Maldini a la Repubblica, questa volta si parla degli inizi di Paolo e dei suoi figli, argomenti importanti e che gli stanno a cuore.
L’ex capitano del Milan ha parlato cosi dei suoi inizi: “La mia vocazione è iniziata guardando i mondiali del ’78, guardavo soprattutto Bettega. A 10 anni arrivo al Milan e il tecnico chiede a mio padre: signor Maldini, dove lo faccio giocare? Ah, non so, veda lei, disse mio padre, e andò in un angolo della tribuna, il più lontano possibile dal campo. Esordii da ala destra. Ma la voce di “figlio di” mi ha accompagnato fino alla prima squadra. Giochi solo perché sei il figlio di Maldini: voci di avversari ma anche di genitori dei miei compagni. So che a Sandro Mazzola era stato riservato lo stesso trattamento. Ed è per questo che vorrei risparmiarlo ai miei figli. Mio padre non è mai andato a parlare con i miei allenatori, lasciava fare, rispettava i ruoli. Grazie a Dio mi hanno insegnato tanta tecnica e poca tattica, per la tattica ha provveduto Sacchi.”
Le ultime parole riguardano i figli e gli insegnamenti che uno sport come il calcio può regalare ad un ragazzo: “Christian è un armadio, gioca da difensore centrale nella Primavera del Milan e in tre anni è cresciuto di quasi 30 centimetri. Ha 19 anni, alto 1.88. Daniel ha 15 anni e, sempre al Milan, gioca nei Giovanissimi. Non sono indulgente, direi comprensivo. A quell’età, è difficile avere tempo per altro. A me non è mai pesato. Il periodo tra i 17 e i 18 anni è il più delicato. La famiglia è fondamentale. In più, ho avuto la fortuna di entrare a 17 anni in uno spogliatoio dove si impara in fretta, da compagni come Baresi, Evani, Galli, Tassotti, Terraneo. E si cresce in fretta. A 19 anni sono andato a vivere da solo. Mia madre lo sapeva da sei mesi, a mio padre l’ho detto solo la sera prima del trasloco. Uno sport di squadra, tutti e non solo il calcio, insegna tante cose. C’è meritocrazia, giocano i migliori, non il più ricco o il più simpatico. Se un compagno è in difficoltà, devi dargli una mano. Se sbagli, assumiti la responsabilità e non scaricarla sugli altri. Tutte cose che servono anche nella vita. Se uno è bravo in campo è bravo anche fuori. Idem se è una carogna. Mio padre diceva: comportati bene, sii onesto, impegnati sempre al massimo e il 90% è fatto. Ora, è tutto più difficile: ci sono ragazzi che a 13 anni hanno il procuratore e lo sponsor tecnico, ci sono genitori convinti di avere in casa il nuovo Messi, e gli scaricano sulle spalle le loro aspettative, ci sono allenatori che pensano solo alla classifica e non alla crescita mentale del ragazzo, che magari arriva da lontano e non ha il sostegno della famiglia. So che sui miei figli c’è più peso di quanto ne ho avuto io. E vigilo”.