Appuntamento con Sympathy for the Devil:Milan, storie e rock and roll: uno spazio a cavallo tra passato, presente e future al ritmo di un brano che evoca più di una suggestione sull’argomento proposto.
SUMMER IN THE CITY, LOVIN’ SPOONFUL (1966)
“E baby, non credi che sia un peccato
che i giorni non possano essere come le notti,
In estate e in città, in estate, in città”
Nell’insospettabile Milano ci sono queste serate splendide, infinite, con il cielo azzurro, e poi arancione, e poi rosa fino alle 10 di sera, e fa caldo, finalmente. Il confine morbido, splendido, tra la primavera e l’estate. Viene voglia di tutto, e poi anche di un gelato in più, del prosciutto e melone, della gente – incredibile -, viene voglia anche di uno stadio. Si può fare, se ti piace Vasco Rossi, o gli osceni Modà. Però il concerto è il lato B dello stadio, di San Siro, e viene in mente il lato A del tempio, quello col pallone, nella luce ancora viva della sera.
Negli anni ’60, ’70 era aperto anche a giugno, San Siro, aperto per ferie da campionato, anzi, spalancato. La Coppa Italia, qualche amichevole di lusso e da incasso di fine stagione. Poi, con gli ’80, una delle millanta genialate di Berlusconi Silvio. Il torneo creato solo ed esclusivamente per la televisione, la sua obviously. A Sansa, a fine stagione, a cavallo tra primavera ed estate, sera e notte. Il “Mundialito Clubs” – quattro edizioni programmate tra il 1981 e il 1987, tre giocate, una saltata nell’ 85 causa Heysel -, ha conosciuto un successo esaltante, specie al secondo giro, ed è diventato un cult di quel periodo baciato dalla musa Eupalla. E non lo dice il nostalgico ragazzino di allora. Chiedete a chi l’ha giocato, chiedete a gente come Walter Zenga, Franco Baresi o Aldo Serena, che ha conosciuto ben altre ribalte o giocato ben altre partite. Proprio quel 1983, ha lasciato ricordi indelebili a loro e a chi c’era: va detto, per onestà intellettuale, che la differenza la fece la presenza della Juventus, che – riempita di danée – sbarcò con pressoché tutti i titolari dello squadrone reduce dalla legnata di Magath ad Atene e dalla vittoria in Coppa Italia. Il Milan era il Milan di Castagner fresco di promozione in Serie A, una delle squadre più spettacolari, sissignori, mai viste in rosso e nero. L’Inter era l’Inter, niente di nuovo, e poi il Flamengo e il Penarol, il Sudamerica della tradizione, che valevano il biglietto solo per quei colori fiammeggianti, quelle strisce inconfondibili. “Uno dice il Mundialito – ha raccontato Walter Zenga, ai primissimi passi della sua grande storia interista – e poi scendevi in campo e vedevi davanti queste maglie gialle e nere, il calcio che avevi sempre immaginato“. Il tutto in uno stadio paciarotto e che man mano si riempiva sempre di più, alla faccia della diretta tv di Canale 5. Prima partita ore 20, primo tempo “in chiaro” nel senso della luce solare, seconda ore 22. Obbligo, divertire la platea catodica (“At-tac-ca-re” era già in voga allora) e divertirsi.
Il Milan, dal canto suo, rispettò le consegne alla perfezione, concludendo degnamente un anno di gol, di spettacolo, di sorrisi in faccia alla letteraccia B. Allenamentini giusto di conservazione dopo la promozione conquistata in larghissimo anticipo, qualche amichevoluccia. Baresi, Verza, Evani, Tasso e gli altri boys si trovavano in un albergo del centro nel pomeriggio, un gelato e un giretto a dare un occhio alle ragazze in “summer dress”. Riunioni tecniche anche no, piano tattico: giocare a pallone. Due chiacchiere con Castagner, poi, a San Siro. Inciampo alla prima giornata con il Penarol, poi tre gare da fuochi d’artificio, perfetti per l’estate. La Juve quasi campione d’Europa agguantò il 2-2 a pochissimi giri dalla fine con una zampata di Pablito Rossi, poi ecco palesarsi il Flamengo, strisce orizzontali contro strisce verticali: e il trionfo del verticale è nelle incredibili sgroppate da quattrocentista di “Gondrand” Pasinato, Tir impazzito sulla corsia destra che sorpassa in progressioni terrificanti per fine giugno gentucola come Junior suscitando boati che si risentiranno solo una ventina d’anni dopo, oggetto Riccardino Kakà. Finisce 1-1 ed è un punteggio surreale, perché il Milan, nelle persone fisiche di Jordan e Serena, stabilisce il record tuttora imbattuto di gol fatti-non fatti. Un trionfo di legni e tocchi sbagliati davanti alla rete già nuda. Se cercate gli highlights su YouTube li trovate con telecronaca brasiliana. Da non credere. Ma il Summer Party del Diavolo entusiasma i suoi affamati tifosi: e succede che la sera dell’1 luglio, serata finale del torneo, convengono qualcosa come 85mila persone (riscriviamo: ottantacinquemila) per Juventus-Flamengo, sorta di finale che assegnerà il torneo e poi per il derby di chiusura. Platonico un par di palle, perché soprattutto per i rossoneri rappresenta una sorta di redde rationem, di primo riscatto dopo mesi, anzi, anni di sfottò per la doppia B, le retrocessioni “una pagando e una gratis” nelle parole dell’inimitabile Peppino Prisco, le scommesse e tutto il solito contorno.
Aldo Serena, il giorno stesso, ha saputo che tornerà all’Inter, Giussy Farina gli aveva promesso (e a Castagner) di costruire il nuovo Milan intorno a lui. Non ha mantenuto. Sarà anche “solo” il Mundialito, ma tra stizza e sentimenti contrastanti, non è proprio il massimo degli approcci. Poi, però, si entra in campo. “E il derby è il derby – raccontò anni dopo alla Tribù del Calcio – volevo lasciare bene i milanisti e quella sera San Siro era incredibile, mai più visto così pieno, così bollente“. Una prima zuccata, specialità della casa, smonta un pezzettino di gradinate milaniste, pareggia il solito, fastidioso Altobelli. Poi, poco dopo, un perfetto cross di Pasinato e la palla che arriva morbida come la pelle di un neonato sul sinistro dell’Aldo, posizionato al vertice opposto dell’area. Siamo qui per divertirci, no? E allora vai con la legnata al volo, che trasforma lo smottamento della Sud in crollo. “Uno dei miei gol più belli“, detto da uno che poi ha segnato caterve di gol tra Mondiali, finali, Coppe, Nazionali. Il gol numero 101 di quella stagione milanista apparentemente da dimenticare vale il 2-1 nel derby, la prima rivincita di mille che verranno, il segnale che il vento del Milan, portandosi dietro comunque qualche residua bufera, stava ormai per cambiare.
Alla premiazione, tuttavia, le solite maglie bianconere. Un gol di Boniek per battere il Fla, Il vecchio Furino alza la coppa (e un assegno di 100mila dollari, discreta cifretta all’epoca), come MVP del torneo viene premiato lui Michel Platini. Le Roi che, uscito da San Siro, si inerpica in una lunga notte milanese, tra drink, qualche sigaretta e una caccia all’ultimo gol stagionale nella persona di una avvenente segretaria-produttora berlusconiana. Infruttuosa, diranno i testimoni. E dopo i tempi supplementari, il mattino coglie Michel seduto su un gradino di un negozietto ancora chiuso, appena dietro Porta Venezia, insieme a un giornalista suo compagno di cordata nelle ore piccolissime. Passa un ragazzetto, diretto chissà dove. Lo fissa, esclama con calma, senza eccitazione, “Platini!“, e tira dritto. Un pensiero ad alta voce, come se avesse visto un manifesto, un poster, o avuto una visione nella prima luce del suo idolo. Come può essere possibile che sia seduto per strada, così presto, in una via qualunque, d’estate, in città. Solo un sogno, dai. E a rimanerci di sale, per una volta, è lui, il campione. Cose che capitavano, ai tempi del Mundialito.
This post was last modified on 4 Luglio 2015 - 11:37