Nuovo appuntamento con Sympathy for the Devil:Milan, storie e rock and roll: uno spazio a cavallo tra passato, presente e future al ritmo di un brano che evoca più di una suggestione sull’argomento proposto.
C’è stata una volta in quei favolosi anni ’80 che andare a San Siro, di sera, nel tepore di giugno, non fu esattamente dolce. Milan-Juventus, quarti di finale andata Coppa Italia. Fino a due settimane prima, roba buonissima per noi, giovani rossoneri affamati; dopo, un piatto avariato, avvelenato, completamente rovinato dalla stricnina dell’Heysel.
Ventinove maggio millenovecentoottantacinque, lo sanno tutti, impossibile dimenticare, ingiusto, irresponsabile dimenticare. Esattamente due settimane dopo, 12 giugno, l’appuntamento di Milano. Per la prima volta da quella orribile notte di Bruxelles, la Signora si rimetteva in maglietta e pantaloncini, tornava in campo per fare il suo mestiere, giocare a calcio. Sugli spalti, dagli spalti nemmeno uno striscione bianco e nero, forse qualche bandierina. Gli juventini, pochi e mesmerizzati in un pubblico a sua volta tutto meno che sansiresco. Il cielo coperto, da pesante cappa estiva milanese, rendeva perfettamente l’atmosfera di piombo di quella sera. Era strano, particolare per tutti – non solo per chi era un supporter di Madama – ripresentarsi in uno stadio, fosse anche la casa San Siro, con quelle immagini ancora fresche negli occhi. La carica, il muretto, le urla, le cataste di corpi, le robe oscene che avevamo visto soprattutto nel dopo, nei telegiornali, negli speciali televisivi terminati, di fatto, solo pochi giorni prima. Federazione, Lega, la stessa Juventus optarono per un cerimoniale sobrio, quasi impalpabile, il minimo sindacale. La lettura di un breve comunicato, il lutto al braccio, il minuto di silenzio.
Le squadre entrarono in campo, qualche applauso, dai popolari e dai distinti un paio di tazebao con parole di cordoglio: l’aria pesava un quintale in quel minuto di silenzio rotto solo da un isolato urlo proveniente dalla zona Brigate-Fossa. “Ladri di merda”. Seguito in tempo reale da un urlo adiacente, e ancora più forte: “Stai zitto, (bestemmione atomico)”. Prima di sciogliersi in un doveroso, sentito applauso dedicato alle vittime, qualcuno riuscì persino a sorridere o ridere di quell’improvvido sketch. Forse persino concordato, chissà, per eludere in qualche modo la consegna del rispetto del raccoglimento che la curva si era autoimposta, gesto minimo e comunque cancellato da un paio di “Liverpool, Liverpool” che partirono durante la partita.
Soli quattordici giorni dopo, e buonanotte alla presa di coscienza, al senso di civiltà e rispetto a cui ci appelliamo ancora oggi di fronte ai soliti cori, ai soliti striscioni e magliette da decerebrati. Non poteva che finire 0-0, senza gol e senza gioia, senza l’adrenalina prodotta da qualsiasi MilanJuventus che porti in dote dei punti, degli obiettivi. Un Diavolo molliccio e stoppato anche dai pali (tre) contro una Juve spuntata, scesa sul prato senza tutto l’attacco titolare, senza Platini, estenuato dal dolore e dalle polemiche. Centravanti gobbo era il leggendario Giovanni Koetting, ala destra un ragazzo di 19 anni, Scola, sparito in tempo zero da qualsiasi almanacco. Il Milan si prese poi la qualificazione a Torino, pochi giorni dopo, un lampo di Virdis bastò in uno stadio ancora più grigio, triste, bagnato da una pioggerella quasi autunnale, quasi più folta la rappresentanza rossonera rispetto a quella degli juventini, cuori sepolti insieme ai loro fratelli di tifo sotto le macerie dell’Heysel.
Heysel che non era per nulla cambiato cinque anni dopo, quando il Diavolo – suo malgrado – si è trovato ancora con la faccia davanti all’incubo, ai fantasmi. Il Milan di Sacchi e degli olandesi contro i piccoli grandi rognosi belgi del Malines nei quarti di Coppa Campioni. Che chiese e ottenne dall’Uefa di potere disputare il match interno a Bruxelles: sapete, l’incasso. E chi li rivede più in una volta sola Gullit, e Van Basten, e Maldini, tutti i nomi che sappiamo. Giunse il “sì”, e giunse sulla testa dell’Associazione, prima squadra a recarsi all’Heysel dopo quella orrenda notte del 29 maggio. Volarono critiche ad altezza uomo, specialmente da parte dell’Associazione dei familiari delle Vittime. Ma il Milan dovette subìre la decisione, l’ok della Uefa non ammise trattative, dubbi. E poi, pensandoci, dopo 57 mesi e passa questa poteva essere davvero l’occasione non solo per fare più cassetta (anche l’Associazione, va ammesso), ma per un ricordo, una partecipazione, un gesto. E qui sì, la società provò a fare ben più di qualcosa, scontrandosi con il muro di gomma delle autorità della capitale e della stessa Uefa, che dissero no a tutto: nessuna commemorazione ufficiale, una messa celebrata alle 8.30 della mattina della partita, niente lutto al braccio, nessun minuto di silenzio. No alla richiesta di potere deporre una corona di fiori sulle gradinate di quel settore che tutti, in Italia, ricordavano benissimo.
Dall’altoparlante, un breve comunicato seguito da una musica sparata a tutto volume mentre Franco Baresi, accompagnato dall’allora direttore organizzativo Paolo Taveggia, si recava a posare un mazzo di 39 rose rosse ai piedi della Curva Z. Frettolosamente ribattezzata come “settore Nord-Nord”. Ma era sempre lei, quel sinistro sudario di cemento marcio, alle sue spalle ancora il cantiere abbandonato del 1985 da cui gli hooligans attinsero altri bastoni, pietre, altre armi per condurre poi la loro folle e assassina presa del territorio. Qualcuno nei pressi pensò bene di tirare pure qualche oggetto verso il capitano e Taveggia, niente di che: ma fu il timbro su una certezza vigente da cinque anni a questa parte, vale a dire che per loro, per i belgi, l’Heysel e i suoi morti rappresentavano un fastidio, una seccatura provocata anche (o soprattutto) degli italiani. Gente venuta a turbare la loro quiete, l’ordine, le regole, il lifestyle da bravi ragionieri dell’esistenza, non troppo differente o persino eguale agli altri, agli inglesi che avevano invaso, spaccato, devastato, colpito, ucciso.
Guarda il caso, anche in quest’altra partita in cui il Diavolo sfiorò l’Inferno del calcio venne vissuta in grigio: un altro 0-0, e grazie a Giovanni Galli, forse alla sua migliore prestazione in assoluto in rossonero. Da album dei ricordi preziosi, invece, il ritorno, 2-0 ai supplementari, in 10 contro 11, Preud’homme che parò tutto tutto meno l’ultima zampata felina di Marco Van Basten. Lì si era già tornati agli standard normali, di piedi e di testa, di cuore.
La nube dell’Heysel si era allontanata – forse fin troppo – dalla testa dei milanisti e di tutti quanti, salvo palesarsi poi in occasione degli anniversari, degli incroci scomodi che il calcio, come la vita, a volte provoca liberando tutti in un colpo i cattivi ricordi. Che vanno tuttavia trasformati in memoria, in coscienza. In consapevolezza acquisita di come un Milan-Juventus, un Malines-Milan, un Milan-Chiunque possono azzerarsi nei significati, svolgersi senza gioia, con la zavorra di un’ombra, di un disagio. Baresi posò quelle 39 rose, la domenica seguente – Juventus-Milan, guarda te il destino – ebbe in ritorno un applauso, uno striscione, una manifestazione di gratitudine. I belgi le sbatterono invece in un bidone, chissà, forse immediatamente dopo la fine della partita. A farle morire subito, un’altra volta. Chiudendo gli occhi, non pensandoci nemmeno un secondo. Sperando che qualcuno venisse a portarlo via subito, quel bidone.