Il 20 gennaio 1985 comincia un pacchetto di mesi prima, 1° maggio 1984. Giornata di festa con scampagnata rossonera ad Angera sul Lago Maggiore, amichevole infrasettimanale, ai tempi non è ci fosse molto da fare che aspettando la domenica , se non allenarsi e andare a raccogliere qualche spicciolo in giro per la provincia. Il Milan è un bel po’ strapelato, in sede c’è Giussy Farina, sulla panchina c’è una bandiera, Italo Galbiati: ha sostituito il “traditore” Ilario Castagner, cacciato per avere già raggiunto un accordo con l’Inter per la stagione seguente. Il vecchio Italo è uno dei cercatori d’oro di Milanello, un guru delle giovanili, è quello che – per fare un esempio – ha chiuso dentro ai cancelli Franco Baresi, scartato dai dirimpettai nerazzurri perché eccessivamente “Piscinin”. Bene, Galbiati, nel breve tragitto Carnago-Angera, pensa di tirarsi dietro un allampanato 15enne degli Allievi che ha già intravisto, e che non è difficile identificare in quanto assai simile al padre. Si chiama Paolo Maldini e il genitore, nel mondo rossonero, è quello che è, vale a dire un totem, una bandiera, un simbolo. Sembra una roba così, più o meno casuale, è se non è casuale fatta per regalare un titoletto di giornata ai quotidiani sportivi. Essendo coetaneo di Paolo, ero alle scuole superiori: alcuni compagni giocavano in squadre giovanili milanesi e ricordo come se fosse oggi uno di essi che si tronfiava di avere incontrato i pari età del Milan in tempi recenti, e di avere “scherzato” più volte l’illustre avversario con tanto di ciliegina-tunnel.
Durante il tardo autunno dell’84, si ha notizia che il figlio d’arte si allena sempre più spesso con la prima squadra: a tirare le fila in campo non c’è più Mastro Galbiati, ma c’è il Barone Nils Liedholm, la scienza pallonara fatta persona. E qui qualcuno più sgamato degli altri capisce che forse non trattasi di caso di raccomandazione: Paolino, che ha 16 anni e spiccioli, ha le gambe un po’ a X, ma se ci crede Liddas è forse il caso di stare all’occhio a questo ragazzo. La voce del debutto inizia a rimbalzare di partita in partita fino a che diventà realtà a Udine, domenica 20 gennaio 1985, una domenica gelida che più gelida non si può. It was 30 years ago today, per dirla alla Beatles. La storia è nota: si fa male il “veterano” Battistini (21 anni, ehm), in panchina c’è gente con curricula teoricamente più adatti, ma il Barone, nell’intervallo, chiede al puer se preferisce giocare a sinistra o a destra: è il segnale, il big bang dell’universo Maldini. Vince la seconda ipotesi e tanto per cominciare, Paolo porta fortuna, visto che in una manciata di minuti Attila Hateley agguanta il gol del pareggio. Il primo compito è svolto bene, con personalità, nessuna sbruffonata, c’è la prima di millanta scivolate in anticipo sull’avversario puntualmente ripresa dalle telecamere Rai che finisce puntuale nel servizio di giornata della Domenica Sportiva. Il giorno dopo, “La Stampa” definisce “brillante” la prestazione del figlio d’arte, bravino, bravino proprio. Tutti convinti al primo colpo: infatti ci si sorprende poi del contrario, vale a dire della “sparizione” di Maldinino nel girone di ritorno e nell’estate di Coppa Italia, con il Milan che si spinge fino alla finale persa poi con la Sampdoria. Ma anche qui, deo gratias, c’è la perfetta regìa di Nils Liedholm, che lascia tranquillo il Golden Boy, lo fa maturare ancora un pochetto nella Primavera di Fabio Capello insieme a un altro bel faccino dotato di talento, Alessandro “Billy” Costacurta: vincono la Coppa Italia Primavera, e per tutti e tre è un primo gradino in comune di una “stairway to heaven”, il paradiso è quello della fama, del successo, del calcio con la c maiuscola. Paul Cuore di Drago (Pellegatti docet) si ripresenta con i grandi l’estate seguente, Liedholm lo mette titolare dalla prima amichevole a Parma, l’8 agosto 1985, e per i seguenti 24 anni non esce più: le presenze ufficiali sono 902, le maglie rossonere complessive ben più di mille, alla fine non si capisce nemmeno più se sono più grandi i numeri, o il campione, o l’uomo, o tutto quanto insieme. E’ sempre rischioso definire qualcosa o qualcuno “irripetibile”: ma il cammino di Paolo Maldini al Milan, e Paolo Maldini stesso, lo sono davvero.
E quello che onestamente continua a dare fastidio, a essere una fitta che ogni tanto picchia sul fegato rossonero, è coniugare al passato il nome e le opere del Capitano. L’esilio è in corso da cinque anni e mezzo e per certi versi ha assunto un volto che non dispiacerebbe a Kafka, Maldini – è noto – non è personaggio disposto a scendere a compromessi, a rivestire un semplice ruolo da monumento per i piccioni o ancora peggio yesman in attesa che il tempo faccia il resto. Dirigenti non si nasce, ha ricordato qualche dirigentissimo: vero. E’ altrettanto vero che competenti a 360 gradi non si diventa, a meno che tu non abbia vissuto più di 30 anni un solo club, un solo spogliatoio con addosso tacchetti e mutandine, con compagni veri e altrettanti cagacazzi, che tu abbia un dna che automaticamente ti faccia capire chi è fuoriclasse, campione, portatore d’acqua, scartina. Soprattutto chi è uomo e chi no, chi può stare in un posto chiamato Milan. Uno legge l’organigramma dell’Associazione dal classicissimo album di figurine Panini: trova due amministratori delegati, non trova un direttore sportivo (che eppure c’è, formalmente), c’è una serie di dirigenti il cui ruolo ha poco o nulla a che fare col campo. Il Milan ha persino un direttore creativo, ma non ha un direttore dell’area tecnica. Un posto vuoto, una maglietta senza padrone, esattamente come quella rossonera numero 3, rimasto in sospeso come il suo proprietario storico. Il viaggio di Maldini, quel pomeriggio sul Lago Maggiore, partì da quel Milan strapelato, arruffato, incasinato, che navigava a vista: ragione di più perché questo, ora, possa essere il momento giusto per cominciare il secondo giro, magari lungo un altro quarto di secolo. A patto che il pullman (scusate l’involontaria gaffe, non è il momento) stavolta lo guidi lui.