Cudicini Anquilletti Schellinger. Sono undici sillabe, endecasillabo, il verso con cui sono state composte poesie rimaste nel cuore, nella memoria (ok, tecnicamente sarebbero dieci sillabe: licenza poetica, appunto). Cudicini Anquilletti Schnellinger, e il bello e l’incredibile è che pure Rosato Malatrasi Trapattoni è un endecasillabo, e allora come si fa a non pensare che non sia stata poesia quel Milan a strisce sottili, che a cavallo del ’68 compì la propria personale rivoluzione vincendo tutto, ma proprio tutto in due anni e mezzo.
Angelo Anquilletti, magari, non era uno che in campo era poeta, la sua era tutta prosa o forse era silenzio, giù la testa e pedalare, correre, lottare opponendo tutti gli spigoli – e lui, ossuto, ne aveva parecchi, tutti d’acciaio – ai clienti dell’epoca, non proprio signorine. George Best, Gigi Riva, Bonimba, Jimmy Johnstone che era una specie di sgorbio che giocava all’ala nel Celtic ed era un terrore per tutti. Ma Angelo Anquilletti, era nato a Poasco, ancora oggi borgo di incredibile campagna a due passi due da Milano, e venuto su a Cologno Monzese, negli anni suoi ben lontana dall’essere polo mediatico, ha duellato alla pari con tutti questi qui, spesso uscendone vincente. Insomma, uno della gioventù postbellica lombarda e italiana: timido, educato ma altrettanto incapace di spaventarsi e di non tirare fuori le unghie per procacciarsi quanto necessario per vivere e sopravvivere. Diventato calciatore, anzi pardon, difensore del sanissimo calcio italiano anni ’60, il necessario di Anquilletti era la neutralizzazione dei suddetti e di altri spauracchi delle aree di rigore, quasi sempre più grandi e grossi di lui e spesso altrettanto determinati: ma quando Nereo Rocco sceglieva lui come fante destinato alla neutralizzazione dell’artiglieria pesante altrui e i compagni, tra sfottò e preoccupazione, gli chiedevano come se la sarebbe cavata, ad Angelo dagli occhi chiarissimi bastavano tre sillabe, non le undici dei poeti: “Mi pichi”, diceva, “Io picchio” nello slang della sua campagna d’origine.
Poi, in campo, picchiava il giusto, perché non si è mai sentito nessuno lamentarsi più di tanto del trattamento ricevuto: in questo senso, era più temuto Roberto Rosato, l’altra porta superblindata di quel Milan meraviglioso, partito alla conquista del mondo da Piazza Sant’Alessandro – circolo del Milan, appuntamento ore 10 – e da Milanello con un manipolo di giocatori in cui, con l’unica eccezione del Genio Rivera, nessuno credeva fino a quel punto. Coppa Italia, Coppa Coppe, scudetto, Coppa Campioni, Coppa Intercontinentale: davanti facevano il loro dovere, dietro l’Anguilla – troppo facile il soprannome – “picava”, minga tropp in realtà, ma intanto Cudicini, specie nelle partite importanti, non doveva sepre rivelarsi uno e trino. Una delle poche volte che Anquilletti si è trovato un po’ alle corde è stato con l’Ajax, trionfale finale della Campioni, Madrid 1969. Rocco, non ascoltando troppo le relazioni di Cesare Maldini, gli assegnò come sempre il cliente più rognoso della compagnia, il 22enne Johan Cruyff, che tutto faceva meno che la punta pura come il tecnico aveva ritenuto da formazione “letta”. Portato a spasso per il campo dal futuro Papero d’Oro, l’Anguilla denunciava più di un imbarazzo: Saul Malatrasi, accortosene, urlò al Paròn di cambiare. Nereo, senza fare una piega, riferì al dottor Monti – improvvisatosi messaggero tra campo e panchina – di comunicare al libero rossonero “che l’se cambiasse le mudande” al posto delle marcature.
E dopo un 4-1 così, tutto ciò assunse la faccia del ricordo bello, dell’aneddoto che ti allarga gli angoli della bocca. Un cacchio da ridere né allora né oggi, invece, quattro anni dopo a Verona, il maledetto 5-3, la Stella che doveva essere l’ultimo e definitivo hurrah dei reduci di quello straordinario gruppo: lui, l’Anguilla, e poi Rosato, Pierino Prati, gli stessi Rivera e Rocco. Lo spogliatoio milanista come una sorta di camera mortuaria calcistica, tutti tacciono, persino il Paròn, distrutto: c’è uno che piange, ed è lui, Anquilletti, il duro, il pezzo di acciaio. Aveva capito, evidentemente, che non era solo uno scudetto, ma che il sogno finiva lì, che ci sarebbe stato ancora un po’ di Milan (quattro anni), altre partite, ma che la poesia del Diavolo, con o senza endecasillabi, era persa, e si poteva ritrovare solo nella memoria. Vogliamo pensare, anzi, ne siamo certi, che nel momento dell’ultima vigilia e saputo il nome dell’avversario da affrontare, l’Anguilla l’abbia detto ancora una volta, senza paura, senza nessun tremito negli occhi e nel cuore. “Mi pichi”. State attenti, lassù. Non vedrete la palla.