Occhio chiusi, un respiro profondo e quella sensazione che manchi qualcosa. Anzi, qualcuno. Gli occhi si riaprono e si perdono nel vuoto. Una luce in lontananza segna la data: domenica 23 ottobre 2011. Una data qualsiasi di una qualsiasi domenica di sport. Invece no. Ci doveva per forza essere qualcosa che ce la facesse ricordare per sempre. Pesante come un macigno. Come quasi una colpa, un rimorso che lascia l’amaro in bocca come quando ti viene in mente quel flash di quelle immagini terrificanti del tracciato di Sepang. La bocca si riempie d’aria, le guance si gonfiano e tutto viene buttato fuori. La luce segna sempre la stessa data agli stessi minuti: il tempo non è mai trascorso.
Siamo ancora tutti lì, insieme, uniti, come quando gioca la Nazionale. Tutti davanti a un televisore. E non ci interessa se la nostra squadra del cuore per una volta abbia vinto o perso, se l’arbitro abbia dato o non dato un rigore sacrosanto. Questa volta la partita la giochiamo tutti insieme al fianco di un romagnolo dal cuore rossonero. E’ la partita più importante della sua vita. Una corsa lunghissima tra la vita e la morte in una linea sottile che divide le persone in due categorie: i salvati e gli eroi. Lui era, è e sarà un eroe moderno, di quelli che fai fatica a trovarne oggi sui giornali. Bastardo quando serviva in pista ma sempre il primo a porgere la mano quando c’era da chiarirsi. Era uno così, uno di noi.
A cinque anni da quella mattina, siamo ancora qua. A ricordarlo per il suo modo di essere davanti e dietro alle telecamere. A pensarlo come motociclista, milanista, uomo. A chiederci perchè proprio lui. Sicuramente lassù si starà divertendo un mondo, ne siamo sicuri. Gli occhi tornano a mettere a fuoco la data e siamo ancora fermi a domenica 23 ottobre 2011. Perché Marco Simonicelli è ancora qui accanto a noi. Per sempre.