La telenovela Kakà è ufficialmente conclusa. Salvo colpi di scena, il brasiliano resta al Real Madrid. Ma in tutta questa vicenda Adriano Galliani avrà comunque avuto il merito di porre con fermezza una volta di più la questione della tassazione spagnola che dal 2005 in poi ha messo in crisi il libero mercato nel pallone. Per di più nell’ambito dell’Unione Europea. Giocare a calcio è mestiere. Ben retribuito. Con tanto di ingaggi faraonici, bonus, premi, buonuscite, sponsor. Ma ogni Paese fa storia a sé, al punto che alcuni campionati fanno più gola di altri perché costano meno in termini di imposte. Il network KPMG, specializzato nella consulenza manageriale e nei servizi fiscali, legali e amministrativi, attivo in 152 Paesi, ha messo a confronto le legislazioni europee. A sollecitare l’indagine è stata proprio la maggior frequenza di flussi migratori di persone che traslocano in base alla convenienza economica. Nella determinazione del carico fiscale, analizzato su 18 Stati, è stato considerato anche il profilo di un calciatore che percepisce 2 milioni di euro all’anno (vedi tabella in alto).
Considerando contributi di solidarietà e imposte locali, emerge che il Paese dell’Unione Europea più conveniente per un giocatore è la Slovacchia, dove un reddito da 2 milioni annui deve sborsare 380.000 euro al fisco. Ancora più conveniente, ma fuori dall’ambito UE, è la rinomata Svizzera dove l’aliquota dell’11,5 per cento consente un carico “leggero” pari a 230.000 euro all’anno. Tra i campionati di un certo livello la Serie A è solo più cara della Ligue 1. Un giocatore che percepisce 2 milioni di ingaggio all’anno lascia mediamente 874.703 euro all’erario italiano (vedi tabella di fianco) contro 806.642 a quello francese. Attenzione, però, agli sviluppi della politica di Francois Hollande che vorrebbe prelevare fino al 75% dei redditi monstre. Più care le tasse in Germania (876.547 euro), Regno Unito (927.828 euro), Olanda (1.022.109 euro) e Spagna (1.023.931 euro). Su quest’ultima, ovviamente, si calcola il nuovo regime fiscale, dopo l’abolizione della famigerata “Ley Beckham”, quella finita nel mirino del Milan. E non solo. Vediamo di cosa si tratta. La normativa, introdotta nel 2005 su decisione del primo governo Zapatero, prevedeva che per tutti i lavoratori stranieri giunti in Spagna dal 2004 in poi, con redditi superiori a 600.000 euro annui, la tassazione fosse calcolata su un’aliquota pari al 24%, anziché al 43%, per i primi cinque anni di permanenza sul territorio. Era una legge inizialmente pensata per attrarre cervelli, ma ben presto si è rivelata una manna per i presidenti della Liga. Nel 2010 crisi ha indotto ad abrogare la legge, che ovviamente resta valida per chi come Ricardo Kakà è approdato a Madrid nel 2009, con la legislazione ancora in vigore.
Già nel 2008 Michel Platini si era chiamato fuori dalle dispute fiscali tra Paesi. Oggi ballano più di 200.000 euro di differenza tra Francia e Spagna se consideriamo i numeri fin qui presi in esame, inerenti ad un giocatore di medio livello, pagato 2 milioni l’anno. Favorire così la concorrenza non è esattamente il concetto di Stati Uniti d’Europa al quale guardano molti politici e sociologi. Un discorso che si rafforza se consideriamo i Paesi dell’Eurozona. E Spagna, Francia, Italia, Germania lo sono ed esprimono quattro campionati di calcio di altissimo livello. Ci sarà da riflettere. Anche perché c’è già chi fa politiche “più aggressive”. Vedi la Turchia che tassa lo stipendio di Wesley Sneijder al 15%.