Attorno ad Ibrahimovic, con l’intuizione dei tre mediani (Ambrosini, Gattuso, Flamini) in un pomeriggio barese apparentemente anonimo, Allegri costruisce un pool finalmente in grado, dopo dieci-anni-dieci, di poter fare a meno di alcune fonti di gioco dalle quali era stato dipendente per troppo, troppo tempo.
Toscanaccio tosto, insomma, questo Allegri. L’unico in grado, dopo Alberto Zaccheroni, di vincere zittendo il presidente, di vincere con la propria filosofia, di vincere anche con giocatori mediocri. Di far vincere uno scudetto da protagonista ad Antonio Cassano. È passato poco meno di un anno e mezzo e l’allegria, che va pian piano spegnendosi in una lenta agonia con pochi precedenti al suo attivo, cerca ancora i suoi perché. Di quel tecnico al limite della guasconeria che nel corso del suo primo ritiro estivo in maglia rossonera dichiarò “Silvio, questa squadra non subirà mai il gioco degli altri” (e lo fece prima degli arrivi di Ibrahimovic e Robinho), è rimasto davvero ben poco.
Dal non cambiare mai modulo, testardamente innamorato del suo 4-3-1-2, a cambiarne tre solo negli ultimi due mesi: dal 4-3-3 che si pensava potesse esaltare El Shaarawy e Bojan, al 4-2-3-1 con giocatori riadattati in ruoli inconcepibili (si pensi a Nocerino pseudo-ala-mezzala-qualcosa a sinistra), fino al 3-4-3 di Malaga che, sui ribaltamenti di fronte, diventava puntualmente ed inesorabilmente un 5-4-1 (per non dire un 5-5-0, su). “Mancano gli uomini”, pensano tanti tifosi, cercando così di fornire qualche attenuante a un allenatore che, tuttavia, settimana dopo settimana, sembra voler fare di tutto pur di non aver più alcun alibi.
Questa squadra non è certamente peggiore di quella che vinse lo scudetto con Zaccheroni nel fortunato 1999 e nemmeno, concorderete, di quella che guadagnò faticosamente il piazzamento UEFA nel 2001 con la doppia guida Zac-Maldini. È anche dura, va detto, allenare giocatori, anche di lunga militanza rossonera, che appaiono svogliati, demotivati, come inebetiti e che, così facendo, non trasmettono certo gioia di vivere ai “nuovi”. In un mondo ideale, in un calcio ideale, che più che ideale dovrebbe rappresentare la normalità, l’assenza o la dipartita (non terrena) di top player dovrebbe scatenare il fuoco nel cuore di chi resta, perché ha più possibilità di esprimere le proprie potenzialità. Questo attualmente non succede ed è preoccupante. Ben più preoccupante è che l’inermità colpisca anche Max, l’ex toscanaccio senza macchia e senza paura.
This post was last modified on 27 Ottobre 2012 - 18:03