Shevchenko non è il semplice bomber che ti fa vincere le partite: è il peso sulla bilancia che sposta gli equilibri. Quando è in campo lui, e lo si è potuto appurare nella partita inaugurale dell’Ucraina contro la Svezia, i padroni di casa giocavano in dodici. Senza dimenticare tutto il pubblico che si anima, quasi spinto da una forza mistica, quando in campo appare il numero 7. Numero sette: croce e delizia di Sheva. Ed è stato proprio quel sette a voltargli le spalle nel momento del bisogno: 2008, Sheva torna a Milano con la coda tra le gambe dopo la buia e Blues esperienza inglese. Un ritorno amaro, visto come è stato gestito poi il suo secondo addio, ma che non ha scalpito il ricordo che l’Usignolo di Kiev ha lasciato nella testa di ogni tifoso rossonero. E adesso vedere i campi di calcio senza Sheva sarà come andare a Milano e non trovare il Duomo, tutto perde di qualità.
Dopo l’eliminazione della sua Ucraina, Shevchenko ha deciso di passare il testimone come guida della nazionale e del Paese. Perchè lui era anche il capitano della sua nazione. Come la sua Dinamo Kiev, squadra nella quale è cresciuto e nella quale nel 2009 è tornato per chiudere definitivamente la sua infinita carriera. Perchè gli Zar, anche se non hanno più un regno, non smettono mai di primeggiare. Ma queste sono altre storie.
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