Andriy Mykolayovych Shevchenko. Quanto lo abbiamo amato, con quegli occhioni che esprimevano forza e tenerezza. Quanto ci ha entusiasmato, con le sue galoppate e i suoi gol. Quanto ci siamo sentiti traditi dalla sua dipartita con destinazione Londra, Mourinho e scuole in inglese per il suo pargolo. Quanta freddezza del popolo milanista al suo ritorno, che, purtroppo per lui, non ha rappresentato il riscatto, dopo il biennio all’ombra di Stamford Bridge.
Shevchenko, dopo 7 anni al Milan in cui ha vinto una Champions, una Supercoppa Europea, uno scudetto, una Supercoppa Italiana e una Coppa Italia, più il pallone d’oro 2004 e il titolo di capocannoniere nel 2000, decide nella primavera del 2006 che è tempo di lasciare Milanello. Destinazione Premier, Londra, il Chelsea del magnate russo Abramovich.
I tifosi restano con l’amaro in bocca: Sheva, nel febbraio precedente, è diventato il secondo miglior marcatore
della storia rossonera, dopo Gunnar Nordahl, e vederlo andare via equivale ad un doloroso addio ad un pezzo di storia.
Il biennio al Chelsea non gli porta in dote l’ascesa all’Olimpo che avrebbe voluto, e che forse avrebbe meritato. Non sfonda, più per incomprensioni con Mourinho il primo anno e con Grant il secondo, che per demeriti personali. Il punto è che Sheva si è trasferito in una squadra dove ambientarsi non è mai stato semplice (vedi Torres quest’anno per conferma) e questo elemento ha condizionato il resto della sua carriera.
Al primo anno segna 14 gol su 51 presenze. Al secondo, con Grant che subentra a Mou in settembre, gioca 25 partite e segna 8 gol. Uno di questi 8 gol è l’ultimo per il Chelsea targato Mourinho. A Stamford Bridge il primo match di Champions col Koppinen termina 1-1. Eppure il Chelsea
arriverà fino in fondo alla competizione, anzi ad un soffio dalla coppa. A Mosca, contro gli eterni rivali del Manchester, il Chelsea butta via con uno
scivolone di Terry il rigore del match point. Lo United recupera e col rigore segnato da Giggs e grazie all’errore di Anelka si laurea campione d’Europa.
Sheva quella finale la seguirà dalla panchina, e per protesta non andrà a ritirare la medaglia d’argento.
Quello che sto per dire vale fino ad un certo punto, anche perché la finale di Mosca è stata segnata dalla sfortuna, ma nei due anni in cui le strade si sono separate, il Milan l’ha vinta una Champions, l’anno successivo la partenza di Sheva, mentre l’ucraino no. I due anni in blu gli hanno portato in bacheca “solo” una FA Cup e una Coppa di Lega.
Ma nell’agosto del 2008 le strade dei due si riuniscono. Il Chelsea lo cede in prestito al Milan, con termini del contratto rimasti riservati. Il numero 7 non c’è più (è di Pato), come anche il posto da titolare fisso e indiscusso. Davanti a lui c’è Ronaldinho, Inzaghi, lo stesso Pato, Kakà.
I numeri della stagione sono disarmanti: 26 presenze, 2 gol, uno alla Lazio nei primi ottavi di finale secchi di Coppa Italia (persi 2-1) e l’altro allo Zurigo nel primo turno di Coppa Uefa.
A fine stagione i ruoli sono invertiti rispetto a 3 anni prima: Sheva vorrebbe probabilmente restare, ma il Milan non lo vuole trattenere. Rientra al Chelsea, insieme ad Ancelotti, neo allenatore dei blues. Ma Carletto non ha in mente di tenere nella rosa del nuovo corso il giocatore che gli ha regalato gran parte della Champions 2003.
Così Sheva si trasferisce definitivamente alla Dinamo Kiev, dove tutto era cominciato, dove aveva imparato ed era esploso. È ancora lì, a segnare come un tempo: questa stagione è già a 3 marcature. E, possiamo immaginarlo, ha solo un obiettivo in testa: ben figurare a Euro 2012 con la sua Ucraina, paese ospitante insieme alla dirimpettaia Polonia. Anche se molto male ci ha fatto il suo addio, ci è dispiaciuto non vederlo più sugli scudi. Speriamo quindi che possa tornarci, nella sua ultima occasione di calcare un prestigioso palcoscenico internazionale. Perché mentre alla storia col Milan è stata posta la parola “fine”, alla sua carriera personale ancora no. Buona fortuna, Sheva!